MITTITE RETE ET INVENIETIS

Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: "Io vado a pescare". Gli dissero: " Veniamo anche noi con te". Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando era già l'alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: " Figlioli, non avete nulla da mangiare?" Gli risposero: "No". Allora egli disse loro: " Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete". La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse:" E' il Signore!". (Gv 21, 1-7)

post scorrevoli

giovedì 12 dicembre 2013

Nuestra Señora de Guadalupe

Tra il 9 ed il 15 dicembre 1531 la Vergine Maria appare a Juan Diego a Guadalupe (Messico). Si presenta come una donna del luogo, una meticcia, indossa una tunica con un fiocco nero all'altezza del ventre, segno che nella cultura india indica la donna in maternità. Si definisce la 'Perfetta sempre vergine Maria, la Madre del verissimo ed unico Dio'. Gli  chiede di andare dal vescovo e riferire che desidera venga eretto un tempio in suo onore. Ma Juan Diego non viene ascoltato, il vescovo vuole un segno. La Santa Vergine allora ordina a Juan Diego di andare a raccogliere, sulla cima del colle, i 'fiori di Castiglia' e di portarli al vescovo. E' il 12 dicembre, e non è la stagione nè il luogo per la crescita di tali fiori! Juan Diego li raccoglie nel suo mantello e li porta al vescovo come segno della veridicità delle apparizioni. Quando apre il mantello per mostrare i fiori, su questo vi è impressa l'immagine della Madonna! L'immagine su questo mantello non è dipinta, nè è opera di mani umane. Resta un mistero. Proprio questa immagine si può ammirare e venerare nel Santuario della Madonna di Guadalupe, famoso ormai in tutto il mondo.
Oración a Nuestra Señora de Guadalupe
Patrona de México y Emperatriz de las Américas
"Madre Santísima de Guadalupe. Madre de Jesús,
condúcenos hacia tu Divino Hijo por el camino del Evangelio,
para que nuestra vida sea el cumplimiento generoso
de la voluntad de Dios
Condúcenos a Jesús,
que se nos manifiesta y se nos da en la Palabra revelada
y en el Pan de la Eucaristía
Danos una fe firme,
una esperanza sobrenatural
una caridad ardiente
y una fidelidad viva
a nuestra vocación de bautizados.
ayúdanos a ser agradecidos a Dios,
exigentes con nosotros mismos y llenos de amor
para con nuestros hermanos.
Amén"

Preghiera tratta da  QUI
Per saperne di più:

lunedì 11 novembre 2013

San Martino, vescovo

Nasce in Pannonia l'attuale Ungheria, tra il 316 ed il 317, da famiglia pagana ma viene istruito sulla dottrina cristiana quando è ancora ragazzo. Martino è figlio di un ufficiale dell’esercito romano ed ancora giovanissimo, per seguire le orme del padre, si arruola nella cavalleria imperiale, prestando poi servizio in Gallia. E’ in quest’epoca che può collocarsi l’episodio famosissimo di Martino a cavallo, che con la spada taglia in due il suo mantello militare, per difendere un mendicante dal freddo. Nel frattempo Martino si fa battezzare e nel 356 lascia l'esercito e raggiunge a Poitiers il dotto e combattivo vescovo Ilario che aveva conosciuto qualche anno prima e che lo nomina esorcista: un passo sulla via del sacerdozio, avvenuto dopo il 360 dalle stesse mani del Vescovo Ilario. Un anno dopo fonda a Ligugé (a dodici chilometri da Poitiers) una comunità di asceti, che è considerata il primo monastero databile in Europa.
Nel 371 viene eletto vescovo di Tours. Per qualche tempo, tuttavia, risiede nell’altro monastero da lui fondato a quattro chilometri dalla città chiamato Marmoutier. Di qui intraprende la sua missione, ultraventennale azione per cristianizzare le campagne: per esse Cristo è ancora "il Dio che si adora nelle città". Non ha la cultura di Ilario, e un po’ rimane il soldato sbrigativo che era, come quando abbatte edifici e simboli dei culti pagani, ispirando più risentimenti che adesioni. Ma l’evangelizzazione riesce perché l’impetuoso vescovo si fa protettore dei poveri contro lo spietato fisco romano, promuove la giustizia tra deboli e potenti. Con lui le plebi rurali rialzano la testa. Sapere che c’è lui fa coraggio. Questo spiega l’enorme popolarità in vita e la crescente venerazione successiva.
Quando muore a Candes, verso la mezzanotte di domenica 8 novembre 397, si disputano il corpo gli abitanti di Poitiers e quelli di Tours. Questi ultimi, di notte, lo portano poi nella loro città per via d’acqua, lungo i fiumi Vienne e Loire.

lunedì 4 novembre 2013

San Carlo Borromeo, vescovo

Carlo nasce ad Arona in provincia di Novara, nella Rocca dei Borromeo, padroni e signori del Lago Maggiore e delle terre rivierasche, il 2 ottobre del 1538. E' il secondo figlio del Conte Gilberto e Margherita dè Medici, sorella di Papa Pio IV, quindi, secondo l'uso delle famiglie nobiliari, viene tonsurato a 12 anni. Carlo non disdegna affatto la sua condizione di uomo avviato alla carriera ecclesiastica, anzi si impegna con profitto e grandi capacità morali, spirituali ed intellettuali. Studia diritto canonico e civile a Pavia, dove si laurea in utroque iure nel 1559.  Lo zio materno  Giovanni Angelo dè Medici viene eletto papa il 26 dicembre 1559 col nome di Pio IV e lo chiama a Roma affidandogli la direzione degli affari più importanti della Chiesa e creandolo cardinale di Santa Romana Chiesa a soli 22 anni. Nel 1562 muore improvvisamente il fratello Federico, il primogenito della famiglia e a Carlo viene consigliato di lasciare l'ufficio ecclesiastico e di sposarsi per non estinguere la dinastia familiare. Carlo invece preferisce lo stato ecclesiastico e decide di farsi ordinare sacerdote e nel 1563 a 25 anni viene consacrato vescovo. Nel 1566 lascia la corte pontificia e prende possesso della Diocesi di Milano. Si dedica alle anime, alla restaurazione e moralizzazione del clero e degli ordini religiosi, nonché alla loro formazione religiosa. Fonda seminari, edifica ospedali e ospizi, è organizzatore e ispiratore di confraternite religiose, di opere pie, di istituti benefici. Dona, inoltre, a piene mani, le ricchezze di famiglia in favore dei poveri. San Carlo Borromeo è uno dei più grandi Vescovi nella storia della Chiesa: grande nella carità, grande nella dottrina, grande nell'apostolato, ma grande soprattutto nella pietà e nella devozione.
"Le anime - diceva- si conquistano con le ginocchia". Si conquistano cioè con la preghiera e la preghiera umile. San Carlo Borromeo fu uno dei maggiori conquistatori di anime di tutti i tempi. Carlo è di fibra molto robusta, si sottopone a grandi fatiche, mangia e dorme poco, fino a logorarsi completamente. Il 3 novembre 1584, il titanico e santo Vescovo di Milano crolla sotto il peso della sua insostenibile fatica, ha soltanto 46 anni.
 

venerdì 1 novembre 2013

Tutti i Santi

La festa di Tutti i Santi, è una giornata di gioia, di spe­ranza, di fede. Una delle giornate più intelligenti, più raf­finate che la liturgia ci propone; è la festa di tutta l'umanità, del­l'umanità che ha sperato, che ha sofferto, che ha cercato la giusti­zia, dell'umanità che sembrava perdente e invece è vittoriosa. E’ la festa di Tutti i Santi, non solo di quelli segnati sul calen­dario e che veneriamo sugli alta­ri, ma anche di quelli che sono passati sulla terra in punta di pie­di, senza che nessuno si accor­gesse di loro, ma che nel silenzio del loro cuore hanno dato una bella testimonianza di amore a Dio e ai fratelli, forse parenti no­stri, amici, forse nostro padre, nostra madre, umili creature, che ci hanno fatto del bene senza che noi neppure ci accorgessimo.  Nella festa di Tutti i Santi, la Chiesa ci dice che i santi sono uomini e donne comuni, una mol­titudine composta di discepoli di ogni tempo che hanno cercato di ascoltare il Vangelo e di metter­lo in pratica. Sono questi i santi che salva­no la terra. C'è sempre bisogno di loro. È in virtù dei santi che so­no sulla terra, che noi continuia­mo a vivere, che la terra continua a non essere distrutta, nonostan­te il tanto male che c'è nel mon­do. Ed è in virtù dei santi di ieri, dei santi che sono già salvati e che intercedono per noi: "una molti­tudine immensa che nessuno può contare, di ogni nazione, popolo e lingua". I santi fanno passare la luce di Dio che continua ad illu­minare il mondo. Nella festa di Tutti i Santi, noi celebriamo la gioia di essere an­che noi chiamati alla santità, per­ché ci è stato detto che abbiamo un cuore che batte come figli di Dio. Ci pensiamo? E San Gio­vanni che ce lo ricorda: "Caris­simi vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente... ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sap­piamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo si­mili a lui, perché lo vedremo co­sì come egli è". Ma quale è la strada della san­tità? Gesù ce l'ha indicata con l' annuncio delle beatitudini che sono la sintesi del Vangelo, lo specchio di fronte al quale ogni discepolo di Cristo deve con­frontarsi. È il portale d'ingresso del Discorso della Montagna, la "carta costituzionale del cristia­nesimo". Ogni regno ha le proprie leg­gi. Le beatitudini sono la legge del Regno di Dio. Chi le osserva entra nella felicità del Regno. Questo dobbiamo capire. Dio ha posto nel nostro cuore la vocazione alla felicità, come ul­timo segno della nostra somi­glianza con Lui. Dio è il Sommo bene, il Beato per eccellenza. Per essere figli di Dio bisogna esse­re felici. 
 
 A cura di Gianni Sangalli della Rivista mensile “Maria Ausiliatrice” Torino.

martedì 29 ottobre 2013

Beata Chiara Luce Badano

Chiara Badano nasce a Savona il 29 ottobre 1971. A nove anni conosce i focolarini di Chiara Lubich ed entra a far parte del GEN. Chiara è' una bella ragazza, solare, sorridente, sportiva, dinamica, simpatica, vivace. Vive la fede nella gioia, nella gratitudine e nella  costante consapevolezza che Gesù Cristo è la Via, la Verità e la Vita da testimoniare ogni giorno, non tanto con le parole, quanto con il comportamento conforme alla sua Volontà. Dice infatti: «Io non devo dire di Gesù, ma devo dare Gesù con il mio comportamento». All'età di 17 anni, alla fine della quinta ginnasio Chiara appare pallida, sorride meno, è stanca. Nell’estate, durante una partita di tennis sente un lancinante dolore alla spalla. Inizia l'iter diagnostico fino alla terribile diagnosi, Chiara ha un cancro maligno: «processo neoplastico di derivazione costale (7ª di sinistra) con invasione dei tessuti molli adiacenti». Affetta dunque da un tumore osseo di quarto grado, il più grave. Inizia così il suo personale calvario: i ricoveri all'ospedale di Torino, la chemioterapia e la radioterapia, affrontando tutto come identificazione con i dolori e la passione di Cristo. Lei conosce la gravità del suo male ma tutto trasforma in amore donato. Si consuma e si offre per amore di Gesù alla Chiesa, al Movimento dei Focolari e ai giovani. Vicino a lei amici, parenti, medici tutti si sentono edificati e respirano aria di Cielo! Nonostante le cure, la malattia avanza inesorabile nell'impotenza dei medici, così Chiara informa Chiara Lubich della volontà di interrompere le cure, scrivendole «Solo Dio può. Interrompendo le cure, i dolori alla schiena dovuti ai due interventi e all’immobilità a letto sono aumentati e non riesco quasi più a girarmi sui fianchi. Stasera ho il cuore colmo di gioia… Mi sento così piccola e la strada da compiere è così ardua, spesso mi sento sopraffatta dal dolore. Ma è lo Sposo che viene a trovarmi».
La fondatrice dei Focolarini nel risponderle le assegna il nome di Luce. Chiara Luce appare molto dimagrita, sofferente, fa fatica a respirare, ha forti contrazioni alle gambe e dolori, ma rifiuta la morfina per non perdere la lucidità e la consapevolezza. Intanto prepara il suo funerale, sceglie l'abito da sposa, le letture, i canti: Chiara è pronta per le sue nozze con Gesù. Alla mamma dice di non piangere perché «quando in cielo arriva una ragazza di diciotto anni, si fa festa!».
Chiara Luce muore alle 4,10 del 7 ottobre 1990, festa della beata Vergine Maria del Santo Rosario. E' beata dal 25 settembre del 2010.http://www.chiaralucebadano.it

giovedì 24 ottobre 2013

San Luigi Guanella, sacerdote

Luigi Guanella nasce a Fraciscio di Campodolcino (Sondrio) il 19 dicembre 1842 da Lorenzo che per 24 anni fu sindaco di Campodolcino e Maria mamma dolce e paziente. A dodici anni va a studiare nel collegio Gallio di Como e prosegue poi gli studi nei seminari diocesani (1854-1866). Viene ordinato sacerdote il 26 maggio 1866. Inizia il suo cammino di pastorale in varie parrocchie dedicandosi all'istruzione dei ragazzi e degli adulti, all'elevazione religiosa, morale e sociale dei suoi parrocchiani, con la difesa del popolo dagli assalti del liberalismo e con l'attenzione privilegiata ai più poveri ei bisognosi: bambini e giovani, anziani lasciati soli, emarginati, handicappati psichici, ciechi, sordomuti, storpi. Così con alcune Orsoline, che organizza in congregazione religiosa, le Figlie di S. Maria della Provvidenza, avvia la Casa della Divina Provvidenza in Como (1886), con la collaborazione di suor Marcellina Bosatta e della sorella Beata Chiara. La Casa vede subito un rapido sviluppo, allargando l'assistenza dal ramo femminile a quello maschile (congregazione dei Servi della Carità), benedetta e sostenuta dal Vescovo B. Andrea Ferrari. L'opera si estende ben presto anche fuori città: nelle province di Milano (1891), Pavia, Sondrio, Rovigo, Roma (1903), a Cosenza e altrove, in Svizzera e negli Stati Uniti d'America (1912), sotto la protezione e l'amicizia di S. Pio X.  Luigi nella sua attività pastorale e caritativa riunisce in sé i carismi di don Bosco e di don Orione. Sa coniugare lo spirito di carità del fare nel lavoro e nel sacrificio con una vita dedita alle devozioni al S. Cuore, alla Vergine Immacolata e un'ascetica austera fatta di penitenze, di preghiere, di severità e osservanza, il tutto sempre con uno stile di semplicità, misericordia e speranza gioiosa.
Muore a Como il 24 ottobre 1915.  E'stato proclamato beato da Paolo VI il 25 ottobre 1964 ed è stato canonizzato a Roma da Papa Benedetto XVI il 23 ottobre 2011. Il suo corpo è venerato nel Santuario del S. Cuore in Como.

mercoledì 23 ottobre 2013

San Giovanni da Capestrano, sacerdote

Nasce a Capestrano (L'Aquila) il 24 giugno 1386,  è figlio di una dama abruzzese e di un barone tedesco, per questo viene chiamato Giantudesco. Si  laurea brillantemente in giurisprudenza a Perugia e viene subito chiamato a lavorare nel Supremo Tribunale di Napoli. Poi è nominato giudice e governatore di Perugia; qui  nel 1416 viene fatto prigioniero dai Malaspina ed in prigione, dopo una visione di San Francesco che lo esortava a diventare frate, matura la decisione di farsi francescano, sicchè una volta tornato in libertà, rifiutandosi di tornare alla mondanità, indossa il saio e diventa amico e difensore di San Bernardino che tanto ebbe a soffrire per la riforma dell'Ordine e per l'accusa di eresia perché onorava Cristo con il famoso monogramma JHS (Jesus Hominum Salvator).   Nel 1429 viene ordinato sacerdote ed il Papa Martino V lo nomina Inquisitore dei Fraticelli e lo invia suo legato in Austria, in Baviera, in Polonia, dove si allargava sempre di più la piaga degli Ussiti. Anche ministri generali dell'Ordine, nonché re e principi gli affidavano tanti incarichi tali da non permettergli di avere una stabile dimora. Intanto trovava il tempo per predicare alle folle, scrivere libri, fondare monasteri, diffondere i Monti di Pietà e compiere molti miracoli. Nell'anno 1456, felicemente regnante Papa Callisto III, l'Europa è minacciata dai Turchi alle porte di Belgrado, Giovanni vi accorre, sostenendo e incitando, per undici giorni di assedio, tra fatiche e privazioni, giorno e notte, le milizie cattoliche impegnate nei combattimenti, con l'ardore della preghiera e del coraggio, nel nome di Gesù. Il 22 luglio 1456 Belgrado è libera ed anche l'Europa. Purtroppo, a causa degli innumerevoli cadaveri che coprivano le campagne ed i luoghi teatro di combattimento, scoppia una pestilenza che miete tante altre vittime tra i quali il comandante della milizia Hunyadi ma anche san Giovanni che muore il 23 ottobre dello stesso anno a 70 anni.   

lunedì 21 ottobre 2013

Beato Carlo I d'Asburgo, Imperatore e Re

Il Principe della Corona d'Austria nasce il 17 agosto 1887 nel castello di Persenbeug, suo padre è Ottone d'Asburgo e la madre Giuseppina di Sassonia, donna ricca di fede e di carità cristiana, che ancora piccolo, lo sottrae agli istitutori dello Stato per educarlo personalmente e affidarlo poi ad ottimi maestri cattolici. Sua Altezza cresce distinguendosi per la fede, la purezza, la bontà, la carità, la generosità, l'amore per Gesù Eucaristia. A 16 anni intraprende la carriera militare: vive come uno qualsiasi dei suoi soldati. Diventa un perfetto ufficiale: sa comandare e ubbidire. Nel contempo frequenta l'università di Praga. A 20 anni parla una decina di lingue ed è molto ammirato dalle principesse d'Europa. Alla Corte di Vienna conosce la Principessa Zita di Borbone-Parma (Serva di Dio)  e se ne innamora ricambiato. Sotto la guida del gesuita Padre Andlau, Carlo e Zita si preparano al sacramento del matrimonio, pregando e facendo opere di penitenza e di carità. Il 21 ottobre 1911, nel castello di Schwarzau, Mons. Bisletti, mandato dal Papa Pio X, benedice le nozze di Carlo e di Zita.
Terminato il rito, Carlo dice alla sua sposa: «E ora dobbiamo aiutarci insieme per raggiungere il Paradiso». Subito partono per Marianzell, il santuario mariano dell’Austria, dove si affidano alla Madonna. Dal matrimonio di Carlo e Zita nasceranno otto figli. Una sera del maggio 1914, Francesco Ferdinando invitò a cena, nella reggia di Vienna, Carlo e la sua famiglia. Il principe ereditario gli disse: «So che tra poco mi uccideranno. Ti affido i documenti di questa scrivania». Il 28 giugno, Francesco Ferdinando cadeva a Sarajevo e Carlo diventa l’erede al trono. Due anni dopo, alla morte di Francesco Giuseppe, il 21 novembre 1916, Carlo d’Asburgo sale al trono imperiale, Carlo I è imperatore d'Austria e Re d'Ungheria. Questa circostanza lo vede di nuovo a Marianzell e là affida il suo Regno a Maria Santissima. Intanto la guerra iniziava su tutti i fronti d’Europa e Carlo I ha una solo pensiero: la pace. Nessuno come lui, in quel difficile momento per l' intera Europa, ascoltò il Papa Benedetto XV nel ricercare la pace non lasciando nulla di intentato, rivolgendosi a tutte le altre nazioni in guerra, mandando come intermediario suo cognato Sisto di Borbone. Occorreva arrivare alla pace. Ma il nemico principale era la massoneria che aveva giurato di far sparire dall’Europa quell’Imperatore cattolico che viveva la sua fede in chiesa come in politica e che non aveva mai permesso che una sola loggia massonica si aprisse nei suoi Stati. 
Il novembre del 1918 segnò il crollo dell’Impero. Nelle città dei suoi Stati era la rivolta. Il 12 novembre a Vienna si proclamava la repubblica. Tutto avveniva secondo i piani della massoneria. L’11 novembre, Carlo aveva abdicato al trono. Cominciava per lui l’esilio. Il 24 marzo 1919, riparava in Svizzera. Nel 1921, seguirono due tentativi da parte del sovrano di riprendere la corona d’Ungheria a cui non aveva mai rinunciato. Il 24 ottobre, insieme a Zita, fu fatto prigioniero dalle truppe di Horty, il reggente di Ungheria e consegnato agli Inglesi. Caricati su una nave, attraverso il Danubio, il Mar Nero, il Mediterraneo, Carlo e Zita furono portati nell’isola di Madera, in mezzo all’Atlantico. Ora aveva perso davvero tutto, il trono, i beni temporali, povero tra i poveri. Solo il Papa pensava a lui e ai suoi familiari. Qui tra privazioni e povertà si ammala gravemente di polmonite e il 1 aprile 1922, a soli 35 anni rende la sua bellissima anima a Dio: aveva offerto la sua vita per il bene dei suoi popoli.
Il momento della morte merita di essere conosciuto: Carlo morente e la sua sposa Zita pregano insieme il Rosario, le litanie alla Madonna e cantano il Te Deum in ringraziamento a Dio per la croce posatasi sulle loro spalle. Il cappellano gli amministra l’Unzione degli Infermi e Carlo desidera avere vicino il figlioletto Ottone: «Desidero che veda come muore un cattolico». Il sacerdote espone il Santissimo Sacramento nella stanzetta. Carlo lo adora: «Gesù, io confido in Te. Gesù, in Te vivo, in Te muoio. Gesù io sono tuo, nella vita e nella morte. Tutto come vuoi Tu».
Il sacerdote lo comunica e lui si raccoglie sereno, ilare di un’intima gioia. Zita gli dice: «Carlo, Gesù, viene a prenderti» e lui le risponde: «Oh sì, Gesù, vieni». Poi ancora: «Oh, Gesù, Gesù!». Alle ore 12 e 23 minuti Carlo I d'Austria inizia a contemplare il suo Gesù.
 Il medico che lo curava, miscredente, esclamò: «Alla morte di questo santo, devo ritrovare la fede perduta». E si convertì. Da tutta l’isola vennero a rendergli omaggio. Beatificato il 2 ottobre 2004 da Papa Giovanni Paolo II.

venerdì 18 ottobre 2013

San Luca, evangelista

Luca nacque ad Antiochia di Siria. Egli non era discepolo di Gesù di Nazaret; si convertì dopo, pur non figurando nemmeno come uno dei primitivi settantadue discepoli. Diventò membro della comunità cristiana antiochena, probabilmente verso l’anno 40. Fu poi compagno di San Paolo (Tarso, inizio I° secolo/ forse 8 d.C.-Roma, 67 ca.) in alcuni suoi viaggi. Lo si trova con l’apostolo delle genti a Filippi, Gerusalemme e Roma. Sostanzialmente suo discepolo, condivise la visione universale paolina della nuova religione e, allorché decise di scrivere le proprie opere, lo fece soprattutto per le comunità evangelizzate da Paolo, ossia in genere per convertiti dal paganesimo. Si incontrò tuttavia anche con San Giacomo il Minore, capo della Chiesa di Gerusalemme, con San Pietro, più a lungo con San Barnaba e forse con San Marco.
 La qualifica di medico attribuita a Luca viene confermata, secondo gli studiosi, dall’esame interno delle sue opere. La sua cultura e la preparazione specifica erano sicuramente note tra le comunità di cui faceva parte. Certamente la sua cultura generale e la sua esperienza degli uomini erano piuttosto notevoli. Prove ne siano lo stile e l’uso della lingua greca nonché la struttura stessa dei suoi scritti: il terzo Vangelo e gli Atti degli Apostoli. Luca coltivava anche l’arte e la letteratura. Un’antica tradizione lo vuole addirittura autore di alcune “Madonne” che si venerano ancora ai nostri giorni, come in Santa Maria Maggiore a Roma. Nulla di certo si sa della vita di Luca dopo la morte di San Paolo. Secondo la tradizione Luca morì  martire a Patrasso in Grecia intorno al primo secolo dopo Cristo.

mercoledì 16 ottobre 2013

Santa Edvige, monaca e duchessa di Slesia e di Polonia

Hedwig nasce ad Andescj in  Baviera nel 1174  e muore a Trebnitz in Polonia il 15 ottobre 1243.
 I genitori Bertoldo e Agnese, di alta nobiltà bavarese, la preparano a un matrimonio importante, facendola studiare alla scuola delle monache benedettine di Kitzingen, presso Würzburg. E a 16 anni, infatti, Edvige sposa a Breslavia (attuale Wroclaw, in Polonia) il giovane Enrico il Barbuto, erede del ducato della Bassa Slesia. Quattro anni dopo, Enrico succede al padre Boleslao e così lei diventa duchessa.
Questo territorio slesiano fa parte ancora del regno di Polonia, ma si sta germanizzando.I suoi duchi, già dal tempo di Federico Barbarossa (morto nel 1190) gravitano nell’orbita dell’Impero germanico; la feudalità locale è invece di stirpe polacca, come la maggioranza degli abitanti, ai quali però si sta mescolando una forte immigrazione di tedeschi. Edvige mette al mondo via via sei figli: Boleslao, Corrado, Enrico detto il Pio, Agnese, Sofia e Gertrude. E si rivela buona collaboratrice del marito nel difficile governo del ducato: guadagna la simpatia dei sudditi polacchi imparando la loro lingua, promuove l'assistenza ai poveri, come fanno e faranno molte altre sovrane; ma con una differenza: lei vive la povertà in prima persona, giorno per giorno, con le regole severe che si impone, eliminando dalla sua vita tutto quello che può distinguerla da una donna di condizione modesta. A cominciare dall’abbigliamento. I biografi parlano degli abiti usati che indossa, delle calzature logore, delle cinture simili a quelle dei carrettieri.
È poco fortunata con i figli, che non avranno rapporti affettuosi con lei, e che moriranno quasi tutti ancora giovani, tranne Gertrude. Suo marito, Enrico il Barbuto, muore nel 1238, e gli succede il figlio Enrico il Pio, che già nel 1241 viene ucciso in combattimento contro un’incursione mongola presso Liegnitz (attuale Legnica).
Disgrazie in serie, dunque. Ma i biografi dicono che lei le affronta ogni volta senza lacrime. Forse perché è tedesca.E fors’anche perché è molto legata all’ambiente monastico del tempo, con tutto il suo rigore. (Alle molte preghiere e pie letture, Edvige accompagna anche penitenze fisiche durissime). Eppure, quando si ritrova sola, non pensa di “fuggire dal mondo” subito, entrando in monastero. No, prima bisogna pensare ai poveri, come dirà alla figlia Gertrude, non per motivi di buona politica, ma perché i poveri sono “i nostri padroni”. E questo linguaggio richiama «la spiritualità degli Ordini mendicanti e in particolare quella dei Francescani, tra i quali Edvige, negli ultimi anni della sua esistenza, scelse il proprio confessore» (A. Vauchez, La santità nel Medioevo, ed. Il Mulino).
Entra infine nel monastero cistercense di Trebnitz (l’attuale Trzebnica) fondato da lei nel 1202. E qui vive da monaca. Anzi, da monaca superpenitente. Muore anche da monaca, chiedendo di essere sepolta nella tomba comune del monastero. Tedeschi e polacchi di Slesia sono concordi nel chiamarla santa: nel 1262, sotto papa Urbano IV, incomincia la causa per la sua canonizzazione, e nel 1267 papa Clemente IV la iscrive tra i santi. Il corpo sarà in seguito trasferito nella chiesa del monastero.

Autore:
Domenico Agasso

giovedì 10 ottobre 2013

San Daniele Comboni, vescovo e missionario

Daniele Comboni nasce a Limone del Garda in provincia di Brescia il 15 marzo 1831; fin da giovane coltiva il desiderio di diventare missionario in Africa e ordinato sacerdote nel 1854, tre anni dopo sbarca in Africa. Il primo viaggio missionario finisce presto con un fallimento: l'inesperienza, il clima avverso, l'ostilità dei mercanti di schiavi costringono Daniele a tornare a Roma. Alcuni suoi compagni si lasciano vincere dallo scoramento, egli progetta un piano globale di evangelizzazione dell'Africa. Mette poi in atto una incisiva opera di sensibilizzazione a Roma e in Europa e fonda diversi istituti maschili e femminili, oggi chiamati comboniani. Di nuovo in Africa nel 1868, Daniele può finalmente dare avvio al suo piano. Con i sacerdoti e le suore che l'hanno seguito, si dedica all'educazione della gente di colore e lotta instancabilmente contro la tratta degli schiavi. Le comunità da lui fondate seguono il modello delle riduzioni dei Gesuiti in America Latina. Spirito aperto e intraprendente, Comboni comprende presto l'importanza della stampa. Scrive numerose opere di animazione missionaria e fonda la rivista Nigrizia che è attiva ancora oggi. Negli anni 1877-78 vive insieme con i suoi missionari e missionarie la tragedia di una siccità e carestia senza precedenti e nell’autunno 1881 riprendono le epidemie: vaiolo, tifo fulminante, con strage di preti e suore in una Khartum desolata. Comboni assiste i morenti, celebra i funerali, e infine muore il 10 ottobre 1881 circondato da una folla piangente. Ha 50 anni. Il 5 ottobre del 2003, giorno della canonizzazione, Giovanni Paolo II lo definì un «insigne evangelizzatore e protettore del Continente Nero». Grazie alla sua opera e a quella dei suoi missionari il cattolicesimo in Africa ha oggi un futuro di speranza.
 

martedì 24 settembre 2013

Salvo D'Acquisto, martire della carità

Salvo D'Acquisto nacque a Napoli il 7 ottobre 1920. Nel 1939 si arruolò nell'Arma dei Carabinieri, segnalandosi sempre per attaccamento al dovere, dedizione al prossimo ed amore alla Patria. Di carattere mite, ottimista e silenzioso, amava la disciplina ed il lavoro ed aspirava a formarsi una famiglia. Di lui si conservano ancora le bellissime lettere scritte alla sua fidanzata. Le sue doti di bontà ed il senso cristiano della vita risplendono nell'atto eroico di Palidoro (Roma), allorché, Vice-Comandante della locale stazione dell'Arma, si offrì come vittima innocente per salvare la vita a 22 ostaggi che stavano per essere fucilati.
Dopo l' 8 settembre del 1943, un reparto di SS si era installato in una caserma abbandonata della Guardia di Finanza sita nella Torre di Palidoro, presso la località di Torrimpietra. In tale caserma, la sera del 22 settembre, alcuni soldati tedeschi, rovistando in una cassa, provocarono lo scoppio di una bomba a mano: uno dei militari rimase ucciso e altri due furono gravemente feriti. L'episodio, del tutto fortuito, fu attribuito dai tedeschi ad un attentato dei partigiani.
La mattina dopo, il comandante del reparto tedesco, recatosi nella Stazione di Torrimpietra per cercare il comandante della locale stazione dei Carabinieri, vi trovò il vice brigadiere D'Acquisto, al quale ordinò di individuare i responsabili dell'accaduto.
Il giovane sottufficiale tentò senza alcun risultato di convincerlo che si era trattato solo di un tragico incidente. L'ufficiale tedesco fu irremovibile e promise una rappresaglia esemplare.
Poco dopo, Torrimpietra fu circondata e 22 cittadini innocenti furono rastrellati, caricati su un camion e trasportati presso la Torre di Palidoro.
Il vice brigadiere Salvo D'Acquisto, resosi conto che stava per accadere l'irreparabile, affrontò una seconda volta il comandante delle SS, nel tentativo di ricondurlo ad una valutazione oggettiva dell'accaduto. La risposta fu: "Trovate i colpevoli"! Alle rimostranze del giovane sottufficiale, l'ufficiale nazista reagì in modo spietato. Gli ostaggi furono costretti a scavarsi una fossa comune, alcuni con le pale, altri a mani nude.
Visto questo gesto Salvo D'Acquisto si autoaccusò come responsabile dell'attentato e chiese che gli ostaggi fossero liberati.
Subito dopo la liberazione degli ostaggi, il vice brigadiere venne giustiziato da una scarica del plotone d'esecuzione nazista. Aveva ventitre anni. Questo gesto coscíente di amore supremo, con cui a 22 anni, il 23 settembre 1943, chiuse la sua esistenza terrena, compendia e rivela le virtù del Servo di Dio, martire della carità.

venerdì 20 settembre 2013

Santi Andrea Kim, Paolo Chong e compagni, martiri

Andrea Kim è il primo sacerdote martire della nascente Chiesa coreana.Era nato nel 1821 da una nobile famiglia cristiana, crebbe in un ambiente decisamente ispirato ai principi cristiani, il padre aveva trasformato la sua casa in una ‘chiesa domestica’, ove affluivano i cristiani ed i neofiti della nuova fede, per ricevere il battesimo, scoperto tenne con forza la sua fede, morendo a 44 anni martire.  Andrea aveva 15 anni quando uno dei primi missionari francesi arrivati in Corea nel 1836, lo inviò a Macao per prepararlo al sacerdozio. Nel 1846 venne arrestato. Subì  tanti interrogatori ma non smise di professare la sua fedeltà al suo Dio, rifiutando i tentativi di farlo apostatare, nonostante le atroci torture. Venne decapitato il 16 settembre del 1846 a Seul.
 
Paolo Chong,era nato nel 1795 a Mahyan. Si distinse per la santità di vita nell'impegno dell'apostolato laicale. Anche lui venne arrestato, interrogato e ripetutamente torturato per fargli abbandonare la religione straniera a cui si era associato, ma vista la sua grande fermezza, venne condannato e decapitato il 22 settembre 1839.
 Nelle persecuzioni coreane, cominciate intorno all'anno 1785 e terminate nel 1882, perirono, secondo fonti locali, più di 10.000 martiri, di questi, 103 furono beatificati in due gruppi distinti nel 1925 e nel 1968 e poi canonizzati tutti insieme il 6 maggio 1984 a Seul da papa Giovanni Paolo II. Solo 10 sono stranieri, 3 vescovi e 7 sacerdoti, gli altri tutti coreani, catechisti e fedeli e la Chiesa li ricorda oggi tutti insieme.  
 
UN PO' DI STORIA
 La fede cattolica comparve in Corea agli inizi del 1600 tramite le delegazioni che ogni anno visitavano Pechino in Cina, per scambi culturali. Proprio in Cina i coreani vennero in contatto con la fede cristiana, portando in patria il libro del gesuita padre Matteo Ricci “La vera dottrina di Dio”; e un laico, Lee Byeok grande pensatore, ispirandosi al libro del famoso missionario, fondò una prima comunità cristiana molto attiva. Intorno al 1780, Lee Byeok pregò un suo amico Lee-sunghoon, che faceva parte della solita delegazione culturale in partenza per la Cina, di farsi battezzare e al ritorno portare con sé libri e scritti religiosi adatti ad approfondire la nuova fede.
Nella primavera del 1784 l’amico ritornò con il nome di Pietro, dando alla comunità un forte impulso; non conoscendo bene la natura della Chiesa, il gruppo si organizzò con una gerarchia propria celebrando il battesimo e non solo, ma anche la cresima e l’eucaristia.
Informati dal vescovo di Pechino che per avere una gerarchia occorreva una successione apostolica, lo pregarono di inviare al più presto dei sacerdoti; furono accontentati con l’invio di un prete Chu-mun-mo, così la comunità coreana crebbe in poco tempo a varie migliaia di fedeli.
Purtroppo anche in Corea si scatenò ben presto una persecuzione fin dal 1785, che si incrudeliva sempre più, finché nel 1801 anche l’unico prete venne ucciso, ma questo non bloccò affatto la crescita della comunità cristiana.
Il re nel 1802 emanò un editto di stato, in cui si ordinava addirittura lo sterminio dei cristiani, come unica soluzione per soffocare il germe di quella “follia”, ritenuta tale dal suo governo. Rimasti soli e senza guida spirituale, i cristiani coreani chiedevano continuamente al vescovo di Pechino e anche al papa di avere dei sacerdoti; ma le condizioni locali lo permisero solo nel 1837, quando furono inviati un vescovo e due sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi; i quali penetrati clandestinamente in Corea furono martirizzati due anni dopo.
Un secondo tentativo operato da Andrea Kim Taegon, riuscì a fare entrare un vescovo e un sacerdote, da quel momento la presenza di una gerarchia cattolica in Corea non mancherà più, nonostante che nel 1866 si ebbe la persecuzione più accanita. Nel 1882 il governo decretò la libertà religiosa.
 

giovedì 19 settembre 2013

San Gennaro, vescovo e martire

Gennaro era nato a Napoli nella seconda metà del III secolo e fu eletto vescovo di Benevento, dove svolse il suo apostolato, amato dalla comunità cristiana e rispettato anche dai pagani. La storia del suo martirio si inserisce nel contesto delle persecuzioni di Diocleziano. Gennaro conosceva il diacono Sosso che guidava la comunità cristiana di Miseno e quando ebbe saputo che questi venne incarcerato dal giudice Dragonio, proconsole della Campania, volle recarsi insieme a due compagni, Festo e Desiderio a portargli il suo conforto in carcere. Dragonio, informato della sua presenza e intromissione, fece arrestare anche loro tre, provocando le proteste di Procolo, diacono di Pozzuoli e di due fedeli cristiani della stessa città, Eutiche ed Acuzio. Anche questi tre furono arrestati e condannati insieme agli altri a morire nell'anfiteatro, ancora oggi esistente, sbranati dagli orsi. Ma durante i preparativi, il proconsole Dragonio si accorse che il popolo dimostrava simpatia verso i prigionieri e quindi, prevedendo disordini durante i cosiddetti giochi, cambiò decisione e il 19 settembre del 305 li fece decapitare nel Foro di Vulcano, presso la celebre Solfatara di Pozzuoli.
Si racconta che una donna di nome Eusebia riuscì a raccogliere in due ampolle (i cosiddetti lacrimatoi) parte del sangue del vescovo e conservarlo con molta venerazione. I cristiani di Pozzuoli, nottetempo seppellirono i corpi dei martiri nell’agro Marciano presso la Solfatara; si presume che s. Gennaro avesse circa 35 anni, come pure giovani, erano i suoi compagni di martirio. Oltre un secolo dopo, nel 431 (13 aprile) si trasportarono le reliquie del solo s. Gennaro da Pozzuoli nelle catacombe di Capodimonte a Napoli, dette poi “Catacombe di S. Gennaro”, per volontà dal vescovo di Napoli e sistemate vicino a quelle di s. Agrippino vescovo.
Durante il trasporto delle reliquie di s. Gennaro a Napoli, la suddetta Eusebia o altra donna, alla quale le aveva affidate prima di morire, consegnò al vescovo le due ampolline contenenti il sangue del martire. Il culto per il santo vescovo si diffuse fortemente con il trascorrere del tempo, per cui fu necessario l’ampliamento della catacomba. Affreschi, iscrizioni, mosaici e dipinti, rinvenuti nel cimitero sotterraneo, dimostrano che il culto del martire era vivo sin dal V secolo, tanto è vero che molti cristiani volevano essere seppelliti accanto a lui e le loro tombe erano ornate di sue immagini. G
ià nel V secolo il martire Gennaro era considerato ‘santo’ secondo l’antica usanza ecclesiastica, canonizzazione poi confermata da papa Sisto V nel 1586. San Gennaro è patrono di Napoli e la sua provvidenziale assistenza ha salvato la città da tante calamità tra cui le eruzioni del Vesuvio. Il nome di san Gennaro è legato al prodigio della liquefazione del sangue, conservato nelle ampolle e che è avvenuto per la prima volta il 17 agosto 1389.
Detto prodigio avviene da allora tre volte l’anno; nel primo sabato di maggio, in ricordo della prima traslazione da Pozzuoli a Napoli; la seconda avviene il 19 settembre, ricorrenza della decapitazione, il sangue rimane sciolto per tutta l’ottava successiva e i fedeli sono ammessi a vedere da vicini la teca e baciarla con un prelato che la muove per far constatare la liquidità, dopo gli otto giorni viene di nuovo riposta nella nicchia e chiusa a chiave.
Una terza liquefazione avviene il 16 dicembre “festa del patrocinio di s. Gennaro”, in memoria della disastrosa eruzione del Vesuvio nel 1631, bloccata dopo le invocazioni al santo.

martedì 3 settembre 2013

San Gregorio Magno, Papa e dottore della Chiesa

Nasce a Roma, intorno al 540 d.C, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Viene cresciuto nella fede più ardente dai suoi genitori Gordiano e Silva, ambedue venerati come santi, e dalle due zie paterne Emiliana e Tarsilia.
Gregorio entra presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 diviene prefetto della città. Non molto tempo dopo decide di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere. Questo ritiro claustrale però non durò a lungo, perché Papa Pelagio lo nomina diacono e lo invia a Costantinopoli come Nunzio Apostolico per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni viene richiamato a Roma dal Papa, che lo nomina suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppia anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cerca di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.
Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mette subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivela una visione singolarmente lucida della realtà con cui deve misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli impone. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice.
Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Questa intensa e multiforme attività nel governo della Chiesa, compiuta nella sollecitudine caritativa e nell'azione missionaria, Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene maniAutore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medio Evo. Muore il 12 marzo 604. Fu uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente: Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa!
 
Papa Benedetto XVI  (udienza generale 04.06.2008)

venerdì 30 agosto 2013

Beato Giovanni Giovenale Ancina, vescovo

Nasce a Fossano in provincia di Cuneo, il 1 ottobre 1545. Si laurea brillantemente in Medicina e poi anche in Filosofia. Si traferisce a Roma per fare carriera e lì conosce san Filippo Neri che lo conquista. Nasce così in lui la vocazione di diventare sacerdote. Proprio a Roma comincia il suo ministero e poi accompagna San Filippo a Napoli, dove vive i dieci anni più belli del suo sacerdozio: raccoglie frutti insperati di conversioni, le sue prediche sono talmente partecipate che le chiese napoletane non sono sufficienti a contenere tutti coloro che lo vogliono ascoltare. Ritorna a Roma per ordine di San Filippo, ma qui si accorge che sta correndo il grosso “rischio” di diventare vescovo. A “tradirlo” ed a metterlo in luce davanti a Clemente VIII, oltrechè la fama di uomo santo e di predicatore affermato, sembra sia proprio una predica che è chiamato a tenere davanti a Papa e Cardinali e che egli è costretto ad improvvisare, dato che ha dimenticato a casa gli appunti, frutto di una settimana di intenso lavoro e di ricerca biblica e patristica. Il risultato di quella predica “a sorpresa” è tale che il Papa non può più dimenticarsi di lui, che intanto, mentre prega e fa pregare che non gli capiti la “sventura” di diventare vescovo, abbandona la capitale e si mette a predicare in giro per l’Italia. Rintracciato e proposto per la sede episcopale di Mondovì, sceglie quella di Saluzzo (entrambe nel cuneese) perché più povera e difficile. Sa che qui la fede è minacciata non solo dall’eresia, ma soprattutto dalla scarsa preparazione di un clero, che in fatto di moralità e preparazione teologica lascia molto a desiderare.  Ancina sarà vescovo di Saluzzo per pochi mesi appena: giusto il tempo per rimettere un po’ di ordine, rinvigorire la fede, introdurre la pratica delle Quarantore, favorire il culto all’Eucaristia, combattere l’eresia che dalla vicina Francia sta dilagando in Piemonte. E' un vescovo-pastore buono, in piena sintonia con lo stile evangelico. Sobrietà, penitenza, profonda pietà, austerità di vita, grande generosità verso i poveri, delicatezza e premure verso i malati: è questo il modo con cui il vescovo Ancina, precedendo con l’esempio, cerca di moralizzare il suo clero e cerca di ammaestrare il suo popolo. Intanto predica, con lo stile che gli ha trasmesso San Filippo Neri: in chiesa, per strada, anche su una pista da ballo durante una festa patronale. E prega: ore e ore ininterrotte davanti all’Eucaristia, o nella sua camera davanti all’immagine della Madonna, così assorto e devoto che per richiamarlo alla realtà a volte occorre scuoterlo non poco. Muore il 30 agosto 1604, a due anni esatti dalla sua nomina episcopale ed a 17 mesi appena dal suo ingresso in diocesi. Viene beatificato il 9 febbraio 1890 da Papa Leone XIII.
L'urna contenente il corpo del beato si trova nel Duomo di Saluzzo in provincia di Cuneo.  

lunedì 29 luglio 2013

Santa Marta

Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro, l'amico che Gesù ha risuscitato dal sepolcro.  Gesù si fermava spesso nella loro casa e nel Vangelo ne troviamo notizia. In esso Marta viene descritta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. Alla rimostranza di Marta verso la sorella che non l'aiuta, Gesù risponde con un benevolo rimprovero: "Marta, Marta, tu t'inquieti e ti affanni per molte cose; una sola è necessaria: Maria invece ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta". La lezione impartitale dal Maestro non riguarda, evidentemente, la sua encomiabile laboriosità, ma l'eccesso di affanno per le cose materiali a scapito della vita interiore. Questa immagine mi piace particolarmente: riassume, in una pennellata di colore, quella che dovrebbe essere la vita di ciascuno di noi, spesa tra azione e preghiera. Bello quel mestolo che sembra d'oro, quasi a significare la preziosità del lavoro manuale e quel libro in mano per ricordarci che tutto è preghiera dalla quale scaturisce ogni nostra azione. Quindi affanniamoci pure nelle attività quotidiane, prendendo come modello santa Marta, che la Chiesa ci addita come esempio di vita contemplativa (Marta è una vera benedettina) ma teniamo alto lo sguardo, a Dio che ci benedice se operiamo nel suo nome e per suo amore, e lasciamo che avanzi un momento importante nella nostra giornata per dire un'Ave Maria ed anche qualcosa di più! 
 

mercoledì 24 luglio 2013

Santa Cristina di Bolsena

Cristina visse a Bolsena in prov. di Viterbo al tempo dell’imperatore Diocleziano (243-312) era  figlia del ‘magister militum’ di Bolsena, Urbano, che decise di rinchiuderla, con altre dodici fanciulle, in una torre affinché venerasse i simulacri degli dei come fosse una vestale.
Ma l’undicenne Cristina, che in cuor suo aveva già conosciuto ed aderito alla fede cristiana, si rifiutò di venerare le statue e dopo una visione di angeli le spezzò.
Invano supplicata di tornare alla fede tradizionale, fu arrestata e flagellata dal padre, che poi la deferì al suo tribunale che la condannò ad una serie di supplizi, tra cui quello della ruota sotto la quale ardevano le fiamme.
Dopo di ciò fu ricondotta in carcere piena di lividi e piaghe; qui la giovane Cristina venne consolata e guarita miracolosamente da tre angeli scesi dal cielo.
Risultato vano anche questo tentativo, lo snaturato ed ostinato padre la condannò all’annegamento, facendola gettare nel lago di Bolsena con una mola legata al collo.
Prodigiosamente la grossa pietra si mise a galleggiare invece di andare a fondo e riportò alla riva la fanciulla, la quale calpestando la pietra una volta giunta, lasciò impresse le impronte dei suoi piedi; questa pietra fu poi trasformata in mensa d’altare.
Di fronte a questo miracolo, il padre scosso e affranto morì, ma le pene di Cristina non finirono, perché il successore di Urbano, il magistrato Dione, infierì ancora di più.
La fece flagellare ma inutilmente, poi gettare in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio, da cui Cristina uscì incolume, la fece tagliare i capelli e trascinare nuda per le strade della cittadina lagunare, infine trascinatala nel tempio di Apollo, gli intimò di adorare il dio, ma la fanciulla con uno sguardo fulminante fece cadere l’idolo riducendolo in polvere.
Anche Dione morì e fu sostituito dal magistrato Giuliano, che seguendo i suoi predecessori continuò l’ostinata opera d’intimidazione di Cristina, gettandola in una fornace da cui uscì ancora una volta illesa; questa fornace chiamata dal bolsenesi ‘Fornacella’, si trova a circa due km a sud della città; in un appezzamento di terreno situato fra la Cassia e il lago, nel Medioevo fu inglobata in un oratorio campestre.
Cristina fu indomabile nella sua fede, allora Giuliano la espose ai morsi dei serpenti, portati da un serparo marsicano, i quali invece di morderla, presero a leccarle il sudore. Infine gli arcieri la trafissero mortalmente con due frecce.
A Bolsena il culto a santa Cristina vergine e martire è vivo fin dal IV secolo e perdura ai nostri giorni.
 
 
 
 

mercoledì 17 luglio 2013

Santa Edvige, Regina di Polonia

Nata a Buda nel 1374, dalla stirpe capetingia degli Angioini a quel tempo regnati sull’Ungheria. Sin dalla sua infanzia Edvige era stata educata a leggere abitualmente la Sacra Scrittura, il Salterio, le Omelie dei Padri della Chiesa, le meditazioni e le orazioni di San Bernardo, i Sermoni e le Passioni dei Santi ed altre opere religiose classiche. Il 18 febbraio 1386 sposò  il granduca lituano Jagello, che promise di ricevere il battesimo insieme con tutta la sua nazione, ultimo baluardo pagano in Europa, nonché l’unificazione alla Polonia. Questo matrimonio cambiò la storia europea, trasferendo la frontiera della civiltà occidentale sino ai confini orientali del neonato regno polacco-lituano. Con Edvige si aprì il “secolo d’oro” della storia cristiana della Polonia, cioè il XIV secolo. Edvige è presentata solitamente nell’atto di “regnare servendo”, comportamento che ne fa immediatamente risaltare la sua maturità cristiana, fondata su una vita impregnata di fede e di carità.
Nei suoi confronti è riscontrabile inoltre un’ininterrotta ammirazione da parte del popolo polacco, accompagnata ad un vero e proprio culto ancora vivo oggi a distanza di secoli.
In Edvige vi era un intreccio di doti e virtù, religiosità e devozione, e tutto ciò contribuiva ad irradiare santità in ogni sua attività quotidiana. Dalla sua profonda ascesi cristiana, scaturì un giusto autocontrollo volto a dominare il suo carattere forte e vivace. Edvige si rivelò sempre fedele alla tradizione ed in profonda comunione con la Sede Apostolica. Al tempo stesso si dimostrò tollerante nei confronti delle altre confessioni cristiane e delle altre religioni.  Il matrimonio non fu subito fruttuoso e, purtroppo ebbe modo di gioire assai poco della sua maternità fisica, perché l'unica figlia, erede al trono, Elisabetta Bonifacia morì in breve tempo dopo la sua nascita. A distanza di quattro giorni, il 17 luglio 1399, si spense anche Edvige, alla giovanissima età di 25 anni e 5 mesi. Premurosa della sorte del coniuge, preoccupata per la solidità dello Stato e per la continuità della dinastia Jagellonica, prima di morire consigliò al marito di sposare Anna di Cilli, figlia di Guglielmo e nipote del re San Casimiro il Grande. L’8 giugno 1997 a Kraków, in Polonia, SS. Giovanni Paolo II canonizzò dinnanzi ad una folla oceanica la prima regina della sua nazione, Jadwiga (Edvige), appartenente, come ricordò il Papa, alla “gloriosa stirpe degli Angioini”, dunque di sangue capetingio. Nell'omelia il Santo Padre ha ricordato come questa Santa per noi cattolici possa essere considerata come la regina  Brigida di Svezia “patrona d’Europa”.

mercoledì 26 giugno 2013

San Josemaría Escrivá de Balaguer

Josemaría Escrivá nacque a Barbastro (Spagna) il 9 gennaio 1902. Fra i 15 e i 16 anni cominciò ad avvertire i primi presentimenti di una chiamata divina, e decise di farsi sacerdote. Nel 1918 iniziò gli studi ecclesiastici nel Seminario di Logroño, e dal 1920 li proseguì nel Seminario S. Francesco di Paola, a Saragozza, dove dal 1922 svolse mansioni di "Superiore". Nel 1923 iniziò gli studi di Legge nell’Università di Saragozza, col permesso dell’Autorità ecclesiastica, senza che ciò ostacolasse gli studi teologici. Ricevette il diaconato il 20 dicembre 1924, e fu ordinato sacerdote il 28 marzo 1925.
Nella primavera del 1927, sempre col permesso dell’Arcivescovo, si trasferì a Madrid, dove si prodigò in un instancabile lavoro sacerdotale in tutti gli ambienti, dedicandosi anche ai poveri e ai malati delle borgate, specie agli incurabili e ai moribondi degli ospedali. Divenne cappellano del “Patronato per i malati”, iniziativa assistenziale delle Dame Apostoliche del Sacro Cuore, e fu docente in un’Accademia universitaria. Frattanto continuava gli studi e i corsi di dottorato in Legge, che a quell’epoca si tenevano solo nell’Università di Madrid.
Il 2 ottobre del 1928 il Signore gli fece vedere con chiarezza l’Opus Dei. Da quel giorno il fondatore dell’Opus Dei si dedicò, con grande zelo apostolico per tutte le anime, a compiere la missione che Dio gli aveva affidato. Il 14 febbraio del 1930 iniziò l’apostolato dell’Opus Dei con le donne. Nel 1934 fu nominato Rettore del Patronato di Santa Elisabetta.
Il 14 febbraio 1943 fondò la Società sacerdotale della Santa Croce, inseparabilmente unita all’Opus Dei, che, oltre a permettere l’ordinazione sacerdotale di membri laici dell’Opus Dei e la loro incardinazione al servizio dell’Opera, avrebbe più tardi consentito pure ai sacerdoti incardinati nelle diocesi di condividere la spiritualità e l’ascetica dell’Opus Dei, cercando la santità nell’esercizio dei doveri ministeriali, pur restando alle esclusive dipendenze del rispettivo Ordinario diocesano.
Nel 1946 si trasferì a Roma, dove rimase fino alla fine della vita. Da Roma stimolò e guidò la diffusione dell’Opus Dei in tutto il mondo, prodigando tutte le sue energie nel dare agli uomini e alle donne dell’Opera una solida formazione dottrinale, ascetica e apostolica. Alla morte del fondatore l’Opus Dei contava più di 60.000 membri, di 80 nazionalità.
Monsignor Escrivá fu Consultore della Pontificia Commissione per l’interpretazione autentica del Codice di Diritto canonico e della Sacra Congregazione per i Seminari e le Università; Prelato onorario di Sua Santità e membro onorario della Pontificia Accademia teologica romana, è stato anche Gran Cancelliere delle Università di Navarra (Spagna) e Piura (Perù) .
San Josemaría Escrivá è morto il 26 giugno 1975. Da anni offriva la sua vita per la Chiesa e per il Papa. Fu sepolto nella Cripta della chiesa di Santa Maria della Pace a Roma.
La fama di santità che già ebbe in vita si è diffusa, dopo la sua morte, in tutti gli angoli della terra, come dimostrano le molte testimonianze di favori spirituali e materiali attribuiti all’intercessione del fondatore dell’Opus Dei; fra di essi si registrano anche guarigioni clinicamente inesplicabili. Numerosissime sono anche state le lettere provenienti dai cinque continenti, fra le quali si annoverano quelle di 69 cardinali e di circa 1.300 vescovi - più di un terzo dell’episcopato mondiale - che chiedevano al Papa l’apertura della Causa di Beatificazione e Canonizzazione di Josemaría Escrivá. La causa si è aperta nel febbraio del 1981. Conclusi tutti i necessari tramiti giuridici, la beatificazione del fondatore dell'Opus Dei è stata celebrata il 17 maggio 1992. Il 6 ottobre 2002 è stato canonizzato nel corso di una solenne cerimonia presieduta dal Santo Padre Giovanni Paolo II, in piazza San Pietro alla presenza di oltre 300 mila fedeli provenienti da tutto il mondo.

Dal 21 maggio 1992 il corpo del beato Josemaría Escrivá riposa nell'altare della chiesa prelatizia di Santa Maria della Pace, nella sede centrale della Prelatura dell'Opus Dei, costantemente accompagnato dalla preghiera e dalla gratitudine delle tante persone di tutto il mondo che si sono avvicinate a Dio attratte dall'esempio e dagli insegnamenti del fondatore dell'Opus Dei e dalla devozione di quanti ricorrono alla sua intercessione.

Fonte:
Ufficio Informazioni dell'Opus Dei



 

martedì 4 giugno 2013

San Filippo Smaldone

Filippo Smaldone nasce a Napoli il 27 luglio 1848,  l’anno dei famosi «moti di Napoli ». L’arco di vita di Filippo, che si stende dal 1848 al 1923, fu contrassegnato da decenni particolarmente densi di tensioni e contrasti nei vari campi e settori della vita della società italiana, specialmente nella sua patria d’origine, e della stessa Chiesa. Quando egli era ragazzo di dodici anni, la monarchia borbonica, alla quale era fortemente attaccata la sua famiglia, conobbe il suo rovesciamento politico, e la Chiesa, con la conquista di Garibaldi, conobbe momenti drammatici con l’esilio del suo Cardinale Arcivescovo Sisto Riario Sforza. Non erano tempi certamente favorevoli e ben promettenti per il futuro, specialmente per la gioventù, che subiva il forte travaglio del nuovo corso socio-politico-religioso. Fu in quella fase di crisi istituzionale e sociale che Filippo prese la decisione irrevocabile di ascendere al sacerdozio e di legarsi per sempre al servizio della Chiesa, che vedeva osteggiata e perseguitata e, mentre era ancora studente di filosofia e di teologia, volle già dare un’impronta di servizio caritatevole alla sua carriera ecclesiastica dedicandosi all’assistenza di una categoria di soggetti emarginati, che erano particolarmente numerosi e fin troppo abbandonati in quei tempi a Napoli: i sordi.
Viene ordinato sacerdote il 23 settembre 1871. Appena sacerdote, iniziò un fervido ministero sacerdotale come assiduo catechista nelle cappelle serotine, che da fanciullo aveva frequentato con profitto, come collaboratore zelante in varie parrocchie, specialmente in quella di Santa Caterina in Foro Magno, come visitatore assiduo e ricercato di ammalati in cliniche, in ospedali e in case private. La sua carità raggiunse l’acme della generosità e dell’eroismo in occasione di una forte pestilenza a Napoli, dalla quale restò anche lui colpito e portato in fin di vita, e dalla quale fu guarito dalla Madonna di Pompei, che divenne la sua devozione prediletta per tutta la vita. Il 25 marzo 1885 partì per Lecce per aprire, insieme con Don Lorenzo Apicella, un istituto per sordi. Vi condusse alcune suore, che egli era andato formando in precedenza, e gettò così le basi della Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori. Poiché il cuore compassionevole del sacerdote Smaldone non sapeva dire di no alle richieste di tante famiglie povere, ad un certo punto cominciò ad ospitare, oltre le sorde, anche le fanciulle cieche e le bambine orfane ed abbandonate. Né dimenticava i bisogni umani e morali della gioventù in genere. Aprì, infatti, diverse case con annesse scuole materne, con laboratori femminili, con pensioni per studentesse, tra le quali una anche in Roma. Fu assiduo e stimato confessore di sacerdoti e seminaristi, confessore e direttore spirituale di diverse comunità religiose. Muore a Lecce il 4 giugno 1923.

martedì 7 maggio 2013

Venerabile Maria Cristina, Regina

La venerabile Maria Cristina, regina del Regno delle due Sicilie, è nata a Cagliari il 14 novembre 1812 mentre i genitori Vittorio Emanuele I di Savoia e Maria Teresa d’Asburgo d’Austria, erano in esilio. Fu subito consacrata alla Madonna dalla regina sua madre, consacrazione che fu poi rinnovata da Maria Cristina stessa, appena fu in grado d’intendere e volere.
Nel 1815 le quattro principesse Maria Beatrice, le gemelle Marianna e Maria Teresa e Maria Cristina, insieme alla loro madre raggiunsero Torino, dove il re un anno prima aveva fatto ritorno, essendo mutate le condizioni politiche. Le principesse e soprattutto Maria Cristina, crescevano a corte come se fossero in un ambiente oratoriano, guidate dalla regina e dal padre confessore l’olivetano Giovan Battista Terzi.
Crebbe nella sua fanciullezza formandosi ad una cultura consona ad una principessa e ad una spiritualità profonda; quando ebbe nove anni, il re Vittorio Emanuele I, dovette rinunziare al trono e dopo un periodo d’esilio a Nizza si stabilì a Moncalieri con tutta la famiglia e qui morì dopo tre anni nel 1824.
Nei due anni successivi partecipò insieme alla madre ed alla sorella Marianna ai riti del Giubileo del 1825 andando a Roma, al ritorno si stabilì a Genova, riducendo le sue attività alla formazione e alla conduzione della casa, intanto a 20 anni le morì anche la madre e suo unico conforto rimase padre Terzi.
Ritornò a Torino per disposizione del re Carlo Alberto, dove però le incomprensioni in cui si venne a trovare a corte la fecero molto soffrire, qui sorse in lei il desiderio di diventare suora di clausura; ma il suo direttore spirituale la dissuase, essendo al corrente dei piani di Carlo Alberto che l’aveva destinata come sposa al re di Napoli Ferdinando II, al che lei accettò la richiesta di matrimonio come volontà di Dio.
Il rito religioso avvenne a Genova il 21 novembre 1832, nel santuario di Maria SS. dell’Acqua Santa. Il 26 novembre, gli sposi s’imbarcarono per Napoli, dove giunsero il giorno 30; sotto una pioggia torrenziale furono accolti da una folla festante ed in preda ad un entusiasmo che ha sempre contraddistinto l’espansività dei napoletani.
Iniziò il suo regno accanto al ventiduenne Ferdinando, che già regnava da tre anni; a corte leggeva ogni giorno la Bibbia e l’Imitazione di Cristo e la sua religiosità fu ben presto conosciuta nel palazzo e dal popolo; quando in carrozza, incontrava un sacerdote con il Viatico per qualche ammalato, fermava la carrozza, scendeva e si inginocchiava a terra anche nel fango delle strade di allora; fece in modo che a tutti a corte, fosse possibile partecipare alla s. Messa nei giorni festivi.
La carità verso i bisognosi, l’occupò in pieno, si dice che il Terzi avesse presso di sé un baule pieno di ricevute di chi aveva avuto un beneficio. Provvide d’accordo con il re, che una parte del denaro destinato ai festeggiamenti per il loro matrimonio, venisse usato per dare una dote a 240 giovani spose e al riscatto di un buon numero di pegni depositati al Monte di Pietà.
Dopo tre anni di sposa, la mancanza di un figlio che non veniva, faceva molto soffrire Maria Cristina, che pregava incessantemente per ciò e finalmente nel 1835, avvertì in sé il sorgere di una gravidanza; passò gli ultimi mesi nella reggia di Portici per stare più calma, ma già presagiva qualcosa, perché all’avvicinarsi del parto, scriveva alla sorella, duchessa di Lucca: “Questa vecchia va a Napoli per partorire e morire”, purtroppo era vero, infatti l’erede al trono nacque il 16 gennaio e già il 29 Maria Cristina era morente per complicazioni sopravvenute; prendendo in braccio il tanto atteso piccolo Francesco e porgendolo al re suo marito, disse: “ Tu ne risponderai a Dio e al popolo… e quando sarà grande gli dirai che io muoio per lui”.
Il 31 gennaio 1836 in piena comunione con Dio, si addormentò per sempre fra la costernazione generale. Aveva poco più di 23 anni ed era stata regina per appena tre anni; i solenni funerali furono celebrati l’8 febbraio e il giorno seguente il suo corpo fu tumulato nella Basilica di s. Chiara, dove è tuttora.
Dopo la sua morte la fama di santità, che già godette in vita, si accrebbe e il popolo accorreva a pregare presso la tomba della ‘Regina santa’ e fatti prodigiosi si avverarono per sua intercessione.
Pio IX nel 1859, firmò il decreto d’introduzione della causa di beatificazione, dandole il titolo di venerabile. La pratica andò avanti nei vari stadi con le relative approvazioni canoniche, anche per l’interessamento del re Francesco II “il figlio della santa”; il 6 maggio 1937, Pio XI dichiarò eroiche le sue virtù.
Autore: Antonio Borrelli

giovedì 2 maggio 2013

Sant'Antonino Pierozzi

 
Antonino Pierozzi nasce a Firenze nel 1389. In giovane età viene ricevuto nell’Ordine Domenicano  dal Beato Giovanni Dominici nel convento di Santa Maria Novella, proseguendo la sua preparazione a Cortona, dove ebbe come Maestro il Beato Lorenzo da Ripafratta, del quale fu degno discepolo. Antonino a quattordici anni, a causa del suo aspetto gracile, aveva destato qualche apprensione nel santo Priore, ma in quel fragile corpo c’era un’anima gigante. La sua vita fu intessuta di penitenza e di preghiera. Nello studio fu quello che si dice un “lavoratore”, e ne fanno fede le numerose opere di sommo valore che scrisse. Da Cortona passo al Convento di San Domenico a Fiesole, alle porte di Firenze. Venne ordinato sacerdote nel 1413, divenendo Vicario a Foligno. Dette vita al glorioso Convento di S. Marco e fu Priore a Fiesole, Siena, Cortona, Roma, S. Maria sopra Minerva a Roma, Napoli, portando ovunque quella fiamma di zelo che in lui, fu dolce e forte a un tempo. Papa Eugenio IV, nel 1446, lo nominò Arcivescovo di Firenze e per indurlo ad accettare gli dovette minacciare gravissime censure. Come era stato modello di religioso e di superiore, così fu specchio di Pastore. Indisse guerra inesorabile a tutti i vizi e a tutte le ingiustizie. Fu il Padre dei poveri e degli sventurati. Anche da Arcivescovo osservò le austere regole dell’Ordine, fino alla fine dei suoi giorni. Sul letto dell’agonia poté esclamare: “Servire Dio è regnare!”, e spirò fragrante di verginità e ricco di opere sante. Per la sua consumata prudenza fu chiamato Antonino dei Consigli. Morì il 2 maggio 1459. E’ stato proclamato Santo da Papa Adriano VI il 31 maggio 1523. E’ il Santo Titolare, assieme al Vescovo San Zanobi, dell’Arcidiocesi di Firenze. Dal 1589 il suo corpo, incorrotto, si venera nella Basilica Domenicana di San Marco a Firenze. Il Servo di Dio e Arcivescovo Domenicano, Mons. Pio Alberto Del Corona, durante l’ultima ricognizione del corpo, ha scambiato il suo pastorale con quello misero di legno, che il Santo aveva con se nell’urna. Tale Pastorale dal febbraio 2001 si trova esposto permanentemente nella cripta del monastero delle Suore Domenicane dello Spirito Santo a Firenze, in Via Bolognese, dove si trova, dal 1925 il corpo del Servo di Dio, di cui dal 1942 è aperto il processo di canonizzazione.
L'Ordine Domenicano lo ricorda il 10 maggio.
Autore: Franco Mariani

Oggi la Chiesa ricorda anche Sant'Atanasio

martedì 30 aprile 2013

San Giuseppe Benedetto Cottolengo

 
 
Giuseppe Benedetto Cottolengo nasce il 3 maggio 1786 a Bra, una cittadina della provincia di Cuneo, in una famiglia medio borghese con salde radici cristiane. È il primogenito di 12 figli di cui 6 muoiono in tenera età. Fin dalla sua fanciullezza aveva mostra grande sensibilità verso i poveri. Sceglie la via del sacerdozio, seguito anche da due fratelli. Gli anni della sua giovinezza sono attraversati dall’avventura napoleonica e dai conseguenti disagi in campo religioso e sociale. Compiuti gli studi filosofici e teologici, viene ordinato sacerdote l’8 giugno 1811 nella cappella del seminario di Torino e nominato viceparroco a Corneliano d’Alba. Successivamente riprende gli studi e si trasferisce a Torino, dove nel 1816 si laurea in teologia presso la Regia Università. Due anni dopo viene nominato canonico e aggregato al gruppo di sacerdoti teologi addetti alla chiesa del Corpus Domini di Torino. Trascorre serenamente quel periodo e si distingue per il suo impegno nel predicare, nel confessare e nella dedizione ai poveri. Gli anni tra il 1822 e il 1827 sono caratterizzati da una crescente sensibilità spirituale, che assume l’impronta di un deciso distacco dagli interessi materiali, accompagnato da una tensione per la ricerca di un nuovo modo di vivere la sua vocazione sacerdotale; la meditazione della biografia di S. Vincenzo de’ Paoli lo conduce ad una maturazione della sua dimensione umana e spirituale. Il 2 settembre 1827 viene chiamato per amministrare i sacramenti ad una donna in fin di vita, respinta dagli ospedali della città. In quel tragico episodio, riesce a percepire con più chiarezza i disegni di Dio per la sua vita. Per evitare il ripetersi di simili tragedie umane, animato da divina ispirazione, decide di impegnarsi a soccorrere e assistere le persone abbandonate. È il 17 gennaio 1828 quando prende in affitto alcune stanze non lontano dalla chiesa del Corpus Domini. Qui, grazie alle generosa disponibilità di alcune signore, in particolare della Signora Marianna Nasi Pullino, e di volontari, ha inizio l’opera. Anche se sprovvisto di fondi e di rendite Giuseppe Cottolengo continua ad accogliere persone in stato di grave bisogno o abbandonate. Questa condizione di povertà di mezzi lo fa sentire pienamente libero di confidare in Dio ed essere aiutato dalla Sua Provvidenza. La prima struttura di accoglienza di malati in stato di abbandono incontra una seria di contrasti che ne segnano presto la fine. Tuttavia, sorretto dalla fede nell’azione di Dio, il Cottolengo viene ispirato ad aprire, nel 1832, una nuova casa nel quartiere torinese Valdocco (dove attualmente trova ancora la sua collocazione), e che denomina “Piccola Casa della Divina Provvidenza”, più comunemente conosciuta col nome del suo fondatore : il Cottolengo(SITO UFFICIALE).
Aumenta il numero dei ricoverati e Giuseppe Cottolengo pone alcune famiglie religiose al loro servizio: le Suore Vincenzine, i Fratelli di S. Vincenzo e i Sacerdoti della SS. Trinità. Dà inoltre vita ad alcune famiglie religiose: l’Istituto religioso delle Suore, i Fratelli e la Società dei Sacerdoti a lui intitolati. Pur attraversando nella sua vita momenti drammatici, Giuseppe Cottolengo ha sempre mantenuto serena fiducia di fronte agli eventi: attento a cogliere il ruolo della paternità divina, riconosce in tutte le situazioni la presenza e la misericordia di Dio e, nei poveri, l’immagine più amabile della Sua grandezza. Per mantenere in vita l’opera iniziata, Giuseppe Cottolengo vive tra difficoltà e ostacoli ma non dimentica mai di trattare i poveri con grande rispetto e stima, rivelando speciale affetto per i più indifesi. In tutti i modi possibili al suo tempo, opera per tutelare la loro dignità di essere umani. Con tratti profondamente paterni, con loro si mostra gioioso, pieno di iniziative, rispettoso della loro personalità e dei loro gusti. Si ammala di tifo e capisce che i suoi giorni sono contati. Si distacca allora volontariamente dalle opere che aveva compiuto per Dio e conclude il suo cammino di fede e di vita nella casa di suo fratello Luigi a Chieri (TO). Qui muore santamente il 30 aprile 1842. Giuseppe Benedetto Cottolengo viene sepolto a Torino nella Piccola Casa, in una cappella della chiesa principale, dove riposa ancora oggi. In seguito ai numerosi miracoli verificatisi per sua intercessione, Papa Benedetto XV (Giacomo della Chiesa, 1914-1922)lo beatificò il 28 aprile 1917 e Papa Pio XI (Ambrogio Damiano Achille Ratti, 1922-1939) lo canonizzò il 19 marzo 1934. Oltre alla commemorazione nel Martyrologium Romanum, il santo Cottolengo, per le sue peculiari opere caritatevoli, ha meritato di essere citato nella prima lettera enciclica di Papa Benedetto XVI Deus Caritas Est (Par. 40). San Giuseppe B. Cottolengo amava ripetere, infatti, “Charitas Christi urget nos” (L’Amore di Cristo ci spinge), consapevole che ogni attività assistenziale deve trarre ispirazione dalla pagina evangelica del giudizio finale (Mt 25, 31-40) e dall’ammonimento di Gesù ad abbandonarsi con fiducia alla Provvidenza celeste (cfr Mt 6, 25-34). Era la carità cristiana illuminata dalla fede che gli diceva: “Amen dico vobis : quamdiu fecistis uni de his fratribus meis minimis mihi fecistis.” (“In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.) (Mt 25,40). La “Piccola Casa della Divina Provvidenza”, grazie al suo crescente sviluppo, attualmente estende il raggio della sua azione fuori delle proprie originarie strutture, allargando le braccia ai poveri di altre città d’Italia e nazioni, dal Kenya agli Stati Uniti, alla Svizzera, all’India, all’Ecuador e alla Tanzania.(Tratto da QUI).

Oggi la Santa Chiesa fa anche memoria di